Cratere Euboico

Cratere Euboico

Cratere Euboico proveniente da Pescia Romana (VT), databile al 730 a.C. Con il termine “cratere” si indica una particolare forma di vasi di grandi dimensioni che venivano usati, nel mondo greco ma anche tra gli etruschi e i romani, per mescolare il vino e l’acqua durante il simposio. “Euboico” si riferisce invece all’area di provenienza, ovvero l’Eubea, un’isola del Mar Egeo vicino alle coste orientali della Grecia. È da quest’isola che, fra VIII e VII secolo a.C., migrarono i primi coloni greci verso la nostra penisola, dove fondarono i loro insediamenti ed impiantarono le botteghe artigianali.

Viste le grandi dimensioni del vaso, risulta improbabile che sia stato portato qui direttamente dalla Grecia, ma è plausibile ritenerlo il prodotto di un artigiano greco che aveva impiantato la sua officina nella nostra penisola. Il vaso, dalla forma molto particolare, è dotato di un coperchio sormontato da una piccola coppa su alto piede cilindrico; presenta inoltre una decorazione con vari motivi geometrici intervallati a teorie di animali che hanno permesso l’identificazione con la bottega del Pittore di Cesnola, ceramografo euboico vissuto nell’VIII secolo a.C.

Lampada – La fedele amica del minatore

Lampada – La fedele amica del minatore

Questa lampada fa bella mostra di sé nella sala dedicata alle miniere in galleria, perché la storia delle miniere del Valdarno è lunga, 150 anni di estrazione di lignite, parente povero del carbone.

Le lampade più comuni usate nelle miniere di Cavriglia erano quelle ad acetilene o a carburo. Avevano un compito molto pratico: portare un po’ di luce nel sottosuolo. Servivano soprattutto per infondere sicurezza e coraggio necessari ad affrontare l’oscurità e le mille insidie delle gallerie umide e inospitali. Ogni minatore aveva in dotazione la propria lampada che tirava a lucido, riforniva di carburo e acqua e ne controllava la chiusura.

Le lampade erano di tanti tipi, alcune erano prodotte dalle più importanti fabbriche di lampade italiane come la Santini di Ferrara, la Ricceri di Follonica e la Fratelli Acuti di Casale Monferrato. Essendo però un oggetto abbastanza semplice da realizzare, alcuni minatori provvedevano da soli alla creazione.

Anche il carburo era di facile reperimento. Uno dei principali fornitori era la miniera stessa, che spesso abbondava nel quantitativo che dava agli operai che portavano a casa i rimasugli; c’erano poi i negozi che vendevano di tutto un po’ e anche il combustibile. Lo usavano anche i ragazzi per giocarci, riempivano un barattolino e lo mettevano sotto terra per farlo esplodere. L’odore dell’acetilene ricordava molto quello dei capi d’aglio.

La fiammella bianca e brillante che veniva sprigionata dal beccuccio aveva però un difetto: poteva esplodere, soprattutto se entrava in contatto con il grisou, un gas inodore e incolore legato ai processi di trasformazione della lignite dalla quale si sprigiona al momento dell’estrazione. In queste esplosioni poteva capitare che fossero coinvolti i minatori stessi con conseguenze drammatiche, a volte mortali. Per limitare questo problema nelle miniere erano presenti anche altre lampade. Uno di questi modelli era la lampada “Friemann Wolf”, alimentata a benzina e usata soprattutto nelle camere di abbattimento.

Le altre lampade erano quelle elettriche a batteria, nonostante fossero lampade sicure per quanto riguarda le esplosioni – non avevano una fiamma libera – avevano però altri difetti tra cui il peso eccessivo e varie imperfezioni di tipo costruttivo. Ciò ne limitò l’uso relegandole a lampade di riserva o di sicurezza. Questa tipologia veniva ricaricata alla lampisteria San Paolo nei pressi della miniera di Santa Barbara.

Vasi di Fourcault

Vasi di Fourcault

E’ una delle più antiche collezioni zoologiche conservate all’interno di un museo italiano, ancora intatte dopo più di due secoli. La collezione è costituita da 11 vasi contenenti animali imbalsamati, quasi tutti uccelli, disposti in pose naturali. È un enigma che dura da duecento anni: una collezione di esemplari inseriti all’interno di contenitori di vetro dall’imboccattura a imbuto, molto stretta. L’ipotesi che gli animali siano stati “stirati” e poi rigonfiati con dei ferri all’interno della bottiglia è stata esclusa perché hanno pose assolutamente naturali e piuttosto complicate da ottenere: “Non è come tirare su un veliero in una bottiglia”. In alcuni casi nel vaso è anche inserito più di un animale.

Secondo gli scritti del frate, riuscì per la prima volta a inserire uno di questi animali nella bottiglia solamente nel 1765, ottenendo però la perfezione solamente nel 1771… peccato che… si sia portato il segreto nella tomba.

Canis etruscus

Canis etruscus

Canis etruscus – Cane etrusco

Pleistocene inferiore (2.5/2.4 – 1.0 milioni di anni fa)

Valdarno Superiore, cranio e mandibola

Fra i tanti reperti custoditi all’interno del Museo Paleontologico ce n’è uno particolare che spicca fra tutti gli altri perché è l’unico nel cui cartellino descrittivo è presente anche la parola “TIPO”.

Nonostante sia a tutti gli effetti un “bel tipo”, la parola indica che questo reperto fossile è il primo trovato di una nuova specie e a lui vengono comparati ritrovamenti simili successivi per stabilire se si tratta della stessa specie oppure no.

È arrivato al Museo nel lontano 1839 come dono del Sig. Pieralli, contadino del territorio fra i più attivi nella ricerca e scavo dei tanti fossili presenti in Valdarno.

Dal punto di vista scientifico si può dire che questo canide è molto importante perchè segna l’avvento del “wolf-event”, cioè la modificazione delle compagini dei carnivori europei avvenuto circa 2.5-2.4 milioni di anni fa in seguito all’instaurarsi dei cambiamenti climatici tipici del Quaternario, caratterizzati da oscillazioni di temperatura e progressiva crescita dell’aridità durante le fasi più fredde.

Questo comporta in Europa l’arrivo del Canis. Canis etruscus è in effetti il più antico rappresentante di questi animali. Può darsi che il cane etrusco, che raggiungeva dimensioni paragonabili a quelle di un lupo attuale, fosse un animale sociale come quest’ultimo e dunque che cacciasse in branchi; in questo caso, avrebbe potuto abbattere prede anche notevolmente più grandi di lui, come i cervidi e i bovidi che vivevano nel Valdarno.

Fra le prede predilette dei canidi dell’epoca risultano il “falso” daino di Nesti e il cervo dai palchi a pettine.

Nereo: il simbolo del MUSNAF

Nereo: il simbolo del MUSNAF

Il simbolo del Museo di Storia Naturale dell’Accademia dei Fisiocritici è lo scheletro di balenottera comune che si trova nella corte. L’esemplare lungo 15 metri si era spiaggiato nel 1974 in una costa vicino a Piombino (Livorno). Lo scheletro, recuperato e ricostruito dallo stesso Museo, è esposto dal 1986. A fine 2017 è nato il logo a lui ispirato. Dal 19 Febbraio 2020 si chiama Nereo, nome risultato più votato, anche attraverso un sondaggio social, fra quelli proposti dai visitatori. Sul canale Youtube c’è un digital Storytelling dedicato: https://www.youtube.com/watch?v=95gm10Fjlmc&t

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