Quello che per me potrebbe rientrare a pieno titolo nella mia lista degli oggetti del cuore è sicuramente un vecchio registratore, di quelli con le cassette e il nastro.
Negli ultimi anni, quasi per timore, ormai trentacinquenne, evito di premere sul tasto per la riproduzione, quasi per paura di rimanere deluso di fronte alla tecnica che, pur sigillando ignara ricordi piacevoli e sentimenti, spesso nella sua gara contro la corsa corrosiva del tempo che passa, esce sconfitta.
Fino a qualche anno fa, quando volevo emozionarmi e provare tenerezza verso ricordi e verso il mio passato, ascoltavo la cassetta in cui registravo le mie telecronache calcistiche. Che effetto e che commozione poter ascoltare la mia voce da bambino cristallizzata per sempre in quel nastro!
A differenza degli altri miei coetanei che spesso sognavano di diventare calciatori da grandi, io a quell’età sognavo di svolgere il mestiere di telecronista sportivo. Mi emozionavo ad ascoltare le telecronache che, con il solo “pennello” della voce, dipingevano azioni, animavano giocatori e raccontavano eventi. Allora ricordo che con un videogioco di calcio per PC di fine anni Novanta facevo disputare le partite nella modalità CPU vs CPU, quindi non giocando direttamente, ma simulando i match al computer.
In quei casi effettuavo io la telecronaca, spiegavo le azioni e le gesta dei piccoli eroi fatti di pixel nel PC, giocatori inesistenti con cognomi che richiamavano abbastanza fedelmente la rispettiva nazionalità. Basti pensare che la nazionale italiana in quel gioco aveva come attaccanti i due bomber Galli e D’Angelo. Chi li ha mai sentiti!
Era tipico del momento storico in cui, salvo alcuni casi, era difficile ottenere le licenze ufficiali per i videogiochi sportivi. Forse questo li rendeva magici, quasi eterni e atemporali, siccome potevi rigiocare a quel gioco senza il pensiero di vorticose girandole di convocazioni, trasferimenti o ritiri degli atleti.
Miner è cresciuta in una regione della Cina dove il proverbio “se il cane vede il sole abbaia”, è molto diffuso. Il Sichuan è una valle ampia, l’umidità favorisce la formazione di nebbia e nuvole, la pelle delle persone è particolarmente chiara e – mi racconta – le donne di quella regione sono considerate le più belle della Cina.
Ci incontriamo proprio in un giorno di pioggia e vento, in un luogo di Genova a lei caro: il Porto Antico, vicino all’Isola delle Chiatte in Via al Mare Fabrizio De Andrè. Miner ora vive a Milano dove lavora per un’azienda in ambito supply chain, ma resta molto legata alla città dove ha molti amici e dove si è laureata in archeologia. Ci spostiamo in Via Balbi, sede della sua Università e della biblioteca del Centro Studi Medì*.
Al riparo dalle intemperie, mi mostra l’oggetto che ha scelto, una Nintendo Switch, una console portatile che occupa poco spazio, e che proprio per questo motivo è sempre stata nel suo zaino. Da Deyang, sua città natale, fino a Chengdu per il primo corso di Italiano, da Siena per approfondire la lingua, fino a Genova, e ora Milano. Durante gli studi ha acquistato pochi giochi, per evitare distrazioni, ma ora può permettersi di comprarne qualcuno in più e, grazie al lavoro ed allo stipendio, è arrivata anche una versione della Switch in edizione limitata.
Miner non è una persona legata ad oggetti fisici, è abituata a viaggiare, a traslocare in case prese in affitto, ama divertirsi e trae maggiore soddisfazione dal vivere nuove esperienze piuttosto che dal possedere beni materiali. L’oggetto che ha scelto rappresenta molto bene il suo modo di essere e le fasi della sua vita; è facile da trasportare, leggero, ma non solo, è anche un contenitore di esperienze e di divertimento. Con la Switch si può giocare on line oppure fisicamente, in due e più giocatori o da soli.
Se la console sembra essere il simbolo del suo stile e delle sue scelte di vita, i giochi che ama fare sono metafora della sua personalità, molto positiva e pronta ad affrontare le sfide che il destino le pone di fronte con il sorriso e con fatalità, divertendosi, ma cercando di affrontare ogni “livello” con l’obiettivo di superarlo.
La osservo mentre gioca, dopo aver accuratamente pulito il display. Mi racconta che l’ambientazione del videogioco che sta facendo è fantasy, i personaggi possono usare sia la magia sia strumenti fisici, le sfide sono intricate e il suo personaggio si destreggia alla ricerca di elementi e passaggi “amici”. In queste parole c’è molto del significato simbolico contenuto nei 320 grammi dell’oggetto scelto da Miner, 29 anni, nata in Cina, Genovese per scelta.
Mi chiamo Asia Graziano, ho 29 anni e sono una storica dell’arte.
Da piccola provavo una profonda frustrazione circa le mie doti nel disegno. Il non saper disegnare mi faceva sentire un pesce fuor d’acqua: più mi applicavo, più ottenevo risultati distanti dalle aspettative. Molto spesso decidevo dunque di ricalcare immagini già esistenti, per avere un risultato esteticamente apprezzabile.
Crescendo, aumentava la mia curiosità verso la storia e le sue testimonianze materiali. In edicola usciva una collana di egittologia, che permetteva di creare oggetti in stile antico Egitto, fornendo materiali, immagini di riferimento e istruzioni. Ecco da dove arriva questo vaso, che nell’ottica di una bambina di sette anni, pretendeva di mimare un preziosissimo reperto archeologico
Quello che mi colpisce di più guardandolo a distanza di anni, è la scelta di aver realizzato anche delle crepe, come un oggetto antico è plausibile che abbia e l’utilizzo assolutamente arbitrario dei colori. Il faraone sembra una sorta di diavoletto, dipinto chissà perché di un rosso acceso – quanto di più possibile lontano da un intento mimetico e naturalistico – e il rosa per la veste della figura femminile, forse retaggio del colore della bambola più iconica che sia mai esistita, che sicuramente frequentavo assiduamente ai tempi. Completai tutta la collana, collezionando statuette votive, amuleti e oggetti di ogni genere.
Quell’anno i miei genitori decisero di portarmi a vedere le Piramidi. Devo ammettere che sono stata molto fortunata in questo, ho sempre ricevuto appoggio e sostegno circa i miei interessi storici e artistici, non esattamente in linea con la media delle aspettative genitoriali. Si sogna che i propri figli diventino, dottori, avvocati, ingegneri, molto meno frequentemente che scelgano di diventare storici dell’arte, archeologi o qualsiasi altra professione di ambito umanistico e artistico. Sono stata libera di scegliere il liceo classico, per tanti anacronistico e inutile e ancor peggio di laurearmi in beni e attività culturali prima e in arti visive poi.
La passione per la storia e l’arte non mi ha mai lasciato, anzi è aumentata, evolvendosi e spostandosi lungo l’arco cronologico: allo studio delle civiltà più antiche ho preferito quella occidentale, che ho abbracciato dal Medioevo al contemporaneo. Ho appena pubblicato un volume dedicato alla prima grande artista donna dell’arte occidentale, Artemisia Gentileschi, collaborando con personalità che ho sempre ammirato e scrivo per case editrici, blog e riviste di settore.
Sono assidua frequentatrice di musei di ogni genere e in generale curiosa di ogni testimonianza culturale, specialmente materiale, che ci riguardi. Dono questo oggetto al Museo delle cose, nella speranza che stimoli qualcun altro a seguire le proprie inclinazioni e a farne sostanza dei propri sogni.
Claudia nasce in Argentina, da madre con origini spagnole, e da padre con origini italiane, i suoi nonni sono partiti dalle Marche nel 1911, proprio dal porto di Genova. A lei, “tornata” nella stessa città nel 1997, sembra quasi di avere riempito quel vuoto lasciato in Italia dalla famiglia paterna 86 anni prima. Sposata con un argentino che ha la sua attività a Genova, Claudia è insegnante di spagnolo, ma non solo, si occupa di decorazioni floreali, di turismo e gestisce diversi bed and breakfast.
Ha scelto di portare con sé un oggetto simbolo della sua terra: un mate, il contenitore per bere l’omonima bevanda a base di yerba mate (ricavato dalla pianta sempreverde Ilex paraguariensis). Per Claudia è fondamentale, quando lo beve senza fretta con la sua bombilla (cannuccia), in casa, soprattutto al pomeriggio, si sente in Argentina. Il mate è la connessione con la sua terra.
Ma questo oggetto è anche un simbolo del suo modo di essere, energica e solare, impegnata in molte attività diverse, Claudia è anche sommelier di yerba, la sua passione è contagiosa. Mi racconta che questo mate in particolare è un regalo di sua sorella, è decorata con simboli precolombiani “guarda pampa” (l’origine del mate è da ricercarsi nei Guaranì del nord est dell’Argentina), e il legno di cui è fatto dona un gusto migliore alla bevanda. Mentre parliamo mi offre il mate versando da un termos l’acqua, conservata alla temperatura corretta.
“Quando io ti offro un mate, ti sto aprendo la mia casa, ti sto offrendo la mia amicizia – quando tu offri un caffè è diverso, si va al bar… (formalità) se una persona ti offre il mate è perché ti sta aprendo il suo cuore, perché se non mi sei simpatico non ti offro il mate”.
Claudia pronuncia questa frase per introdurre il racconto di un particolare capitolo della sua vita, quello del suo arrivo a Genova, città vissuta come poco spontanea, e ostile nel considerarla (già laureata in turismo in Argentina) una professionista impiegabile nel mondo del lavoro. Lei non si è mai persa d’animo, si è laureata in lingue, ed ha trasformato ogni ostacolo in un’occasione per imparare cose nuove.
Per contrasto con il suo vissuto genovese, mi racconta della grande ospitalità di alcune famiglie poverissime che le hanno offerto il mate in Argentina. Metto in relazione questo suo racconto con una leggenda molto bella che trovo particolarmente calzante per esprimere lo spirito di condivisione espresso dal consumo di questa bevanda, che coincide perfettamente con la personalità di Claudia.
“Ti offriamo la nostra povertà” – è la frase pronunciata dalla moglie di un contadino che, insieme alla figlia, abita in una casa molto semplice a margine della foresta. La Luna, scesa sulla terra e ormai affamata, viene quindi nutrita con le ultime focacce di mais della famiglia. In cambio della loro generosità fa crescere un campo di Yerba vicino alla casa e dona immortalità alla figlia, che sarà proprietaria della Yerba, una pianta in grado di stimolare le persone pigre e rendere sorelle le persone che non si conoscono (Rif. Eduardo Galleano).
A me pare di non avere solo fotografato un mate, ma anche una persona, Claudia, capace di creare connessioni, donare entusiasmo e condividere, non solo yerba mate.
Sono Alessia Furia, ho 25 anni e amo l’arte e la cultura in tutte le loro sfumature.
Sin da bambina sono sempre stata molto creativa e curiosa. Infatti, adoravo dipingere sui muri, colorare, leggere e conoscere storie e miti. I miei genitori mi hanno sempre trasmesso l’emozione di scoprire cose nuove, di conoscere sempre di più per riuscire, di conseguenza, a conoscere me stessa. Mi hanno insegnato a meravigliarmi di fronte alla bellezza del mondo, fatta di arte, colori, storie e tradizioni.
Crescendo, ho coltivato tutti questi interessi sempre di più. Quindi, la passione per la cultura credo sia nata assieme a me e col tempo è cresciuta al mio passo, come un’amica fidata.
Ho sempre avuto le idee ben chiare riguardo i miei studi. Già dagli ultimi anni della scuola primaria avevo in mente di intraprendere un percorso di studi in ambito umanistico e così è stato, prima con il Liceo Classico, poi con la Laurea in Lettere, curriculum Archeologico e poi con il Master in Management della Cultura e dei Beni Artistici. È stato un crescendo che mi ha dato la possibilità di poter confermare la mia voglia di continuare a perseguire questa strada con convinzione e determinazione.
Addirittura, una piccola curiosità che mi affascina è legata al mio nome. Alessia deriva dal verbo greco Αλέξειν (Aléxein), e il significato dovrebbe proprio essere “colei che protegge”. Ho sempre interpretato questo significato come se fosse stato scritto nel destino quale sarebbe stato il mio “posto nel mondo” e, forse anche per questo, mi sono sempre sentita in dovere di continuare nel mio piccolo a far qualcosa per proteggere il nostro patrimonio. Poter dare un mio contributo, mettendo in pratica quanto appreso durante gli studi, nel valorizzare e promuovere la conoscenza del ricco patrimonio che abbiamo la fortuna di custodire e renderla fruibile a tutti, é sempre stato un mio sogno.
E, proprio per questo motivo, un po’ per scelta, un po’ per il destino che mi ha sempre portata qui, le mie esperienze lavorative sono sempre legate al museo della mia città, il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria.
Sono un’Archeologa e Cultural & Communication Manager freelance. Ho unito la comunicazione all’archeologia anche grazie alla mia formazione, perché credo che alla base della valorizzazione e del promozione del patrimonio debba esserci proprio la comunicazione. Infatti mi occupo principalmente di questo con Istituzioni museali, enti, associazioni e privati, realizzando report relativi alle attività di valorizzazione e promozione, campagne di comunicazione integrata online e offline e pubbliche relazioni. Mi occupo anche di comunicare e far scoprire ai più piccoli le nostre radici, attraverso laboratori didattici che possano stimolare l’interesse e la meraviglia per l’antico.
Ho diversi strumenti che mi accompagnano durante il mio lavoro. Il primo è la mia matita, la mia bacchetta magica che, assieme al taccuino, mi aiuta a dar forma alle mie idee. Poi la mia macchina fotografica, per documentare tutto ciò che cattura la mia attenzione. Un altro oggetto che mi accompagna in ogni momento importante, come un amuleto, è un anello con il Bronzo A di Riace, regalatomi dal mio ragazzo per portare sempre con me il ricordo della meravigliosa esperienza al museo durante il 50º anniversario del ritrovamento dei Bronzi di Riace. Un problema che riscontro nel mio lavoro é la precarietá e la poca fiducia nella comunicazione.
Trattandosi di un ambito in via di sviluppo, spesso noto che ci sia poca voglia di sperimentare, come se ci fosse poca apertura al cambiamento, alle novità. Sarebbe quindi bello se da entrambe le parti ci fosse una collaborazione senza preclusioni, in un continuo scambio dinamico di idee.
In conclusione, sono sempre stata abituata a credere nei miei sogni e nelle risorse che noi giovani, nati durante quest’era tecnologica di continui mutamenti, potremmo mettere a disposizione. In fin dei conti, il mio obiettivo professionale sarebbe quello di poter fare sempre più di queste mie passioni il mio lavoro, che mi dia una stabilità e sicurezza.
Spero che ci possa essere un futuro per tutti noi e che i nostri progetti possano diventare realtà!
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